Secondo quanto è emerso dall′ordinanza 3692/23, pubblicata il 7 febbraio 2023 dalla sezione lavoro della Cassazione, l′azienda paga i danni al lavoratore subiti a seguito di “straining”.
Nel caso specifico, un dipendente dell′Università di altamente qualificato, a causa della forzata inattività a cui è stato costretto, ha subito una inevitabile obsolescenza delle competenze e conoscenze professionali, vedendosi svanire anche la possibilità di ottenere i premi di produttività, sempre ricevuti prima del demansionamento.
E′ stato sottolineato che il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il datore di lavoro, non solo viola l′art 2103 del codice civile, ma anche il diritto del lavoro.
La cassazione ha quindi stabilito che è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute del lavoratore.
Sempre la Cassazione, accogliendo il ricorso del lavoratore, censura il ragionamento dei giudici di merito, rilevando che il danno professionale può essere dimostrato anche in via presuntiva e che, nel caso di specie, l′accertamento degli elementi allegati e provati (l′elevato contenuto professionale dei compiti svolti sino al demansionamento; la prolungata e ingiustificata emarginazione, il mancato invio a corsi di formazione e soprattutto la pressoché totale inoperosità in cui era stato lasciato il dipendente) erano senz′altro idonei a presumere in maniera univoca il degrado della professionalità acquisita e a creare un ambiente stressogeno.
Di fronte a una situazione lavorativa conflittuale, dunque, il giudice del merito deve accertare se il prestatore abbia subito azioni ostili, che hanno inciso negativamente sulla salute dell′interessato, pur se si tratta di condotte limitate nel numero e distanti nel tempo. A maggior ragione quando ci si trova di fronte all′inattività forzosa del prestatore più che a un semplice demansionamento.
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